La Copenhagen Fashion Week ambisce a imporsi come la FW più etica al mondo. Marchi eco-friendly, scenografie a rifiuti zero, criteri di selezione rigorosi… Ma tra le ambizioni vantate e la realtà delle collaborazioni, l’evento è davvero così sostenibile come pretende di esserlo?
Un accesso sottomesso a condizioni rigorose
Dal 2020, la CFW impone ai marchi che vogliono integrare il suo programma ufficiale il Sustainability Requirements: un capitolato particolarmente rigido, con una serie di regole che puntano a ridurre l’impatto ambientale, limitare i rifiuti e promuovere pratiche produttive più etiche. Per partecipare, ogni brand sottopone la propria candidatura a una giuria specializzata in temi di RSI (Responsabilità Sociale d’Impresa), che valuta le varie proposte sulla base di 19 criteri.
Tra i requisiti minimi:
- Almeno il 50% della collezione deve essere certificata, composta da materiali sostenibili di nuova generazione, riciclati, upcycled o provenienti da stock inutilizzati.
- Fur free: la pelliccia è vietata.
- Plastica monouso bandita, sia in negozio, che nei pacchi o nel backstage.
- Le scenografie delle sfilate devono essere a rifiuti zero.
- I marchi devono garantire condizioni di lavoro dignitose lungo tutta la filiera: nessun lavoro forzato.
- Il casting di modelle e modelli deve essere equa e inclusiva.
Un modello che si sta diffondendo a macchia d’olio, ispirando altre capitali europee come Amsterdam, Berlino e Oslo. Ad oggi, Londra è l’unica Fashion Week ad aver adottato ufficialmente questi standard — anche se per il momento si applica solo ai giovani stilisti. La Francia resta indietro, sebbene iniziative locali come la Slow Fashion Weekdi Marsiglia si muovano in questa direzione.
Zalando premia l’impegno di Bubu Ogisi
Lo Zalando Visionary Award di questa ultima edizione è stato assegnato a Iamisigo – il marchio fondato dalla creatrice nigeriana Bubu Ogisi -, vincendo un premio di 50.000 euro e un programma di mentorship di sei mesi per supportare la crescita del suo marchio, già attivo a livello internazionale.


Una collezione vibrante e colorata, che incarna una visione profondamente artistica della moda. Sul suo sito, l’espressione “wearable art” — arte da indossare — riflette perfettamente l’essenza delle sue creazioni. Utilizza materiali di recupero per creare il suo guardaroba impegnato, a metà strada tra il design e l’attivismo.
Attraverso le sue silhouette, Iamisigo rende omaggio alle tecniche ancestrali di tutto il continente africano, dal Ghana al Kenya, integrando la tradizione artigianale in un processo creativo fortemente politico. Il suo approccio punta a conciliare considerazioni ambientali e riflessioni post-coloniali, dando vita a una moda contemporanea, consapevole e radicata nel panafricanismo.
Uno sponsor che fa polemica
Zalando si presenta come un attore chiave nella transizione ecologica del settore moda. Nel 2023 ha annunciato la sua ambizione di voler proporre esclusivamente marchi conformi a criteri green sulla sua piattaforma. Un’operazione di “pulizia” importante, basata su parametri come l’impatto ambientale, i diritti umani e la parità salariale, e che coinvolge 2.500 marchi del suo catalogo.


L’azienda ha dichiarato, inoltre, di voler ridurre dell’80% la propria impronta di carbonio entro il 2025 per quanto riguarda le operazioni interne. Un impegno sostenuto dal 90% dei suoi partner, allineati agli obiettivi dell’Accordo di Parigi attraverso la Science Based Targets Initiative.
Ma dietro questa comunicazione ambiziosa, la realtà è molto più sfumata. Nel 2024, la Commissione europea ha sanzionato Zalando per greenwashing, obbligandola a rimuovere ecolabel fuorvianti presenti nelle schede prodotto. Peggio ancora: nel 2021, la sua impronta di carbonio era due volte superiore a quella dell’Islanda.
La Copenhagen Fashion Week gioca un ruolo di primo piano nella trasformazione dell’industria della moda. I suoi standard esercitano una pressione positiva sui marchi e la sua influenza comincia a farsi sentire anche in altre capitali. Tuttavia, la scelta di partner come Zalando solleva interrogativi sulla sua credibilità. La prova che la moda etica ha ancora molta strada da fare e che le ambizioni dichiarate devono andare di pari passo con una trasparenza assoluta.
Articolo di Julie Boone.