PFW: è giunta l’ora del casting inclusivo? 

Lug 2, 2025 | Brands, Culture, Fashion

La Paris Fashion Week Uomo si è appena conclusa, lasciando un messaggio chiaro: la rivoluzione è in atto. Stilisti e stiliste hanno scelto di scardinare i canoni tradizionali, dando spazio a casting più inclusivi. Tra dichiarazioni politiche e desiderio di democratizzazione, emergono nuovi protagonisti che stanno davvero riscrivendo le regole del gioco.

Jeanne Friot e l’atmostera di Résistance 

Tra Fashion Week e Pride, giugno si è rivelato un mese ricco di appuntamenti importanti. Jeanne Friot, fedele alla sua visione politica della moda, ha ribadito il suo sostegno nei confronti della comunità queer, attraverso un cast composto interamente da persone trans e non binarie, per presentare la sua collezione Primavera-Estate 2026, intitolata Résistance.

A dominare sono il rosa, l’azzurro e i colori della bandiera trans, mentre i look, indossati da corpi troppo spesso assenti dai catwalk tradizionali, mentre i look si trasformano in vere e proprie armature poetiche, arricchite da stivali cuissard con fibbie metalliche.

Il finale si trasforma in una sorta di manifestazione gioiosa: i modelli si stringono, i pugni si alzano, le lacrime scorrono sui volti. In prima fila, Virginie Despentes applaude con convinzione. Per Jeanne Friot, la moda è uno spazio di autentica comunione: qui fare comunità non è una posa, ma un atto reale di resistenza e appartenenza.

L’open casting di 3. Paradis e Willy Chavarria 

Un’altra visione, un altro gesto potente. Qualche giorno prima della sfilata, 3.Paradis ha organizzato un casting aperto a cui hanno partecipato oltre 2000 persone. Di questi, 30 sono stati scelte per sfilare nella sua collezione onirica e impegnata, Steps to Nowhere

Un’iniziativa originale e audace firmata dallo stilista Emeric Tchatchoua, che ha deciso di scardinare i meccanismi di un sistema ancora troppo esclusivo: non serve avere un contratto con un’agenzia, né rientrare in canoni estetici prestabiliti. I profili selezionati sono eterogenei, lontani dai canoni tradizionali imposti: nessuna barriera legata a taglia, età o morfologia.

Jordan, uno dei modelli scelti, racconta di aver partecipato al casting per ritrovare fiducia in se stesso, dimostrando che volere è potere e  la moda può e deve diventare strumento di empowerment.

Anche Willy Chavarria ha puntato su modelli non rappresentati da agenzie. Attraverso una messa in scena impressionante e suggestiva, denuncia le condizioni delle carceri in Salvador: i modelli sono ammassati sul palco, evocando l’oppressione del sistema carcerario di massa. Non è la prima volta che lo stilista latino-americano dedica collezione e sfilata alle comunità marginalizzate negli Stati Uniti, ma questa è anche  l’ennesima presa di posizione politica di Chavarria contro le politiche migratorie repressive promosse da Donald Trump. 

Huron, così si intitola la collezione SS26, è un omaggio alla sua omonima città natale, in California, e — più in generale — alle comunità latine e migranti colpite dalla violenza delle frontiere e dalle politiche di detenzione. Così come il casting, anche Huron è una dichiarazione d’amore e di rivolta. Una preghiera per coloro che l’America vorrebbe dimenticare — e la prova che la moda può essere anche uno spazio di lotta.

C.R.E.O.L.E: una pluralità di corpi per una moda decoloniale

Con la collezione SS26 “DOM TOP FEVER”, il collettivo C.R.E.O.L.E. ribadisce il suo impegno politico attraverso un casting profondamente plurale. In passerella: corpi razzializzati, queer, iper-muscolosi, lontanissimi dai canoni della moda convenzionale. Modelli scolpiti, potenti, fieri, raramente visti nei défilé parigini. Una presa di posizione chiara: restituire visibilità e dignità a morfologie troppo spesso escluse.

Questa diversità non è una strategia per attirare l’attenzione. È il filo conduttore di un guardaroba pensato come strumento di memoria e resistenza. Ispirata al BUMIDOM, ai massacri del maggio ‘67 in Guadalupa e ai racconti panafricani, la collezione si nutre di una memoria diasporica per raccontare storie di esilio, di lotta e di rivendicazione identitaria. Il titolo stesso — DOM TOP FEVER — sovverte con ironia i ruoli imposti: passare da “dominato” a “dom-top” un gesto simbolico che rivendica autonomia, corpo e desiderio come forme di potere.

Per C.R.E.O.L.E., l’abito non veste un corpo neutro: celebra un corpo carico di storia, tensioni e fierezze. E il casting è all’altezza di questo manifesto, ridefinendo i confini di una moda decoloniale, incarnata, poetica e soprattutto politica.